Era il 1991 e quei raduni di ragazzi tra ecstasy e muri di casse erano ormai un fenomeno comune in Gran Bretagna. Ma in Italia? Zero. Se non per una città, la capitale. Come quei “pischelletti” che su Italia 1 fecero ascoltare rave music in diretta nazionale
di VALERIO MATTIOLI
Nel 1991 in cui Ferrara si improvvisava sociologo delle nuove sottoculture giovanili, i rave imperversavano in Inghilterra da almeno tre anni, ma in Italia restavano un fenomeno in larga parte ancora sconosciuto. Tranne che in un posto: Roma. D’accordo, qualche focolaio cominciava a intravedersi anche altrove, ma solo a Roma si sviluppò un movimento rave degno di questo nome, capace di tenere testa al corrispettivo inglese sia in termini di numeri che, come dire, di filiera. Il merito era tutto di personaggi come lo stesso Lory D, che nei tardi anni Ottanta introdussero in città i grandi raduni di massa a suon di techno (e di ecstasy) concepiti per andare avanti fino a mattina inoltrata in una specie di riattualizzazione sci-fi di qualche antico baccanale dionisiaco. Da qui nacque il mito tutto locale del cosiddetto “suono di Roma”: i Novanta nemmeno erano iniziati che un’intera città si riscopriva techno, con tanto di emittenti di riferimento (Radio Centro Suono), negozi di dischi specializzati (Remix), musicisti (oltre i soliti Lory D e Anibaldi ricordiamo almeno Max Durante e i D’Arcangelo, ma la lista sarebbe lunga) etichette discografiche (ACV, SNS), e ovviamente feste – o meglio rave parties. Tra 1989 e 1993 i rave romani divennero talmente grossi da segnare l’immaginario cittadino dal centro storico alla più coatta delle borgate di periferia, e per le feste dentro e fuori il GRA passarono nomi storici della techno che a rileggerli quasi non ci si crede: Derrick May, Prodigy, Joey Beltram (l’autore di Energy Flash: chiedere a Simon Reynolds per ulteriori ragguagli), un giovanissimo Aphex Twin ancora non assurto al rango di megastar della “dance intelligente”.
Un buon riassunto della nascita della cultura rave in Italia lo trovate nel recentemente ristampato Mondo Techno di Andrea Benedetti (Stampa Alternativa, 152 pagine, € 15), anche se è vero che, più che di fenomeno nazionale, il movimento rave rimase per molti anni una faccenda perlopiù confinata a Roma – almeno se vogliamo prendere l’espressione “movimento” sul serio. Quello che intanto importa è che nel 1993 le feste organizzate da Lory D e compagni si erano fatte talmente partecipate da diventare ingestibili: troppa gente, troppi soldi, troppe droghe, troppe risse. Era insomma chiaro che un’epoca si era ormai conclusa, e il risultato fu che il movimento entrò nella sua seconda, cruciale fase: quella dei “rave illegali”.
Stavolta l’origine va ricercata nella saldatura – fino a quel momento impensabile – tra borgatari ex frequentatori della primissima scena rave e mondo delle occupazioni antagoniste. Vere e proprie istituzioni clandestine come Spaziokamino (il centro sociale di Ostia) e Hard Raptus (un collettivo di Primavalle con tanto di trasmissione su Radio Onda Rossa) battezzarono un nuovo modo di intendere il rave fuori da ogni logica commerciale, alla ricerca di spazi abbandonati tra gli interstizi della metropoli dove celebrare settimanalmente il rito della TAZ o “Zona temporaneamente autonoma”. Se la stagione 1989-1993 rappresenta per la scena romana la “fase pionieristica”, quella che dal 1994 arriva al 1997 fu la “fase eroica” che trasformò i rave illegali in un fenomeno autenticamente di massa, al punto che su Roma cominciarono a convergere da tutta Europa le comunità nomadi (in gergo le tribe) che sposavano sensibilità traveller tardo-hippie e fascinazione per le ritmiche industriali di una techno sempre più dura e (ancora per usare il gergo del periodo) “barattolosa”.
A segnare la fine della fase eroica fu l’occupazione della Fintech, un’immensa ex fabbrica in località Castel Romano che da TAZ si trasformò in zona permanentemente autonoma grazie alla presenza stanziale di tribe e traveller provenienti da ogni dove. Fu un finale triste: da spazio liberato, la Fintech precipitò in un girone infernale di spaccio, morti e cattive vibrazioni, ma sarebbe ingiusto rileggere l’eredità della stagione rave alla luce del suo infelice esito. Anche perché, piuttosto curiosamente, è solo attorno alla seconda metà dei Novanta che di “movimento rave” si può infine parlare anche nel resto d’Italia. Da allora, la cultura rave ha attraversato innumerevoli altre fasi (il romanzo Muro di casse di Vanni Santoni restituisce bene il clima di quello che sarebbe diventata dai 2000 in poi), eppure è difficile non guardare con un pizzico di nostalgia a quella surreale puntata de L’istruttoria in cui Ferrara veniva deriso da due pischelli che blaterano di “pompa inaudita”. Non avrà avuto lo stesso impatto della celebre apparizione dei Sex Pistols allo show di Bill Grundy, d’accordo; ma forse, nella storia della televisione italiana, è la cosa che più vi è andata vicina.