Archivio per luglio, 2021

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Tra le tante tracce che si sono prese involontariamente carico di fungere da personale colonna sonora del momento, ce n’è una che sicuramente spicca tra le mie prime scelte. Miles, e il titolo è un tutto un programma, finissimo beat boom bap sambeggiante tra piano, fiati e rullanti, dallo swing suadente e lontano, che sottovoce ti chiama per poi scomparire chissà dove. Una gioia apparente distillata nella malinconia, perfetta per tutte le occasioni mancate della vita. A modellare questo gioiello, Leo Anibaldi, invidiatissimo pioniere techno – per tenerci stretti – di casa nostra che sta vivendo l’ennesima delle sue metamorfosi.

Quella che inizialmente doveva essere una serie di domande su Elements, capolavoro ristampato per la raccolta di recente pubblicazione Ciao Italia. Generazioni Underground, è finita per diventare una chiacchierata a tutto tondo con il genio capitolo, consapevole più che mai del suo visionario percorso, tra ricordi del passato, analisi sullo stato di forma della scena elettronica, corrosivi pensieri a ruota libera e squarci di futuro. Il titolo dell’intervista era un altro, ma Anibaldi mi ha chiesto gentilmente di modificarlo, «per salutare chi non ci conosce, un modo carino per attirare la curiosità di chi non ha mai sentito parlare di questa storia».

Negli ultimi mesi, a partire dall’album Memories, passando anche per i due volumi 90/96, ti vediamo molto attivo con la tua Cannibald Records nella pubblicazione di materiale – inedito e non – risalente a diversi anni fa. Come mai questa scelta di rispolverare l’archivio in maniera così importante?

Visto il grande numero di release e di copie vendute – molte di quelle tracce sono state quasi tutte ai vertici delle classifiche mondiali – mi sembrava doveroso, dopo tanto tempo, rimasterizzare tutto il mio vecchio catalogo. In più, visto che alcune di quelle cose sono state registrate con mezzi di fortuna all’inizio della mia carriera, ho voluto togliere alcune imperfezioni audio per rendere l’ascolto più gradevole.

Sempre a proposito di Cannibald Records, hai in piano ristampe o altri progetti?

Assolutamente. Durante la pandemia ho iniziato a comporre musica che non avevo avuto modo di  produrre fino ad ora, o perlomeno solo in parte. Ho realizzato un album (Pro Pop) che si può definire instrumental hip hop, un mix di tutta la musica che ho studiato e sempre amato, blues, R&B, jazz, funk e, appunto, hip hop. Sai, ho deciso di proporre una musica che fosse accessibile a tutti che si potesse ascoltare in ogni occasione, ma soprattutto una musica che fosse di compagnia. Pertanto, ho fuso tutti questi generi, che sono le mie vere radici, usando una tecnica di registrazione old school con vecchi microfoni anni ‘60, reverberi a molla, registratore a nastro ecc., in modo da ottenere un suono più malinconico o, se vogliamo più datato.

Dunque ho iniziato a cercare un nuovo stile per propormi ancora una volta, con una nuova identità artistica e musicale. Personalmente mi ritengo uno sperimentatore, sono sempre stato in evoluzione, mai fermo immobile su un genere musicale. Credo che con techno, house, acid techno, breakbeat ed elettronica sperimentale ho già detto la mia. Ora vivo in un mondo dove tutto è più calmo ed introspettivo, meno ripetitivo e sicuramente più suonato. Al momento preferisco comporre musica da camera o di compagnia, se vogliamo, una musica sociale, utilizzando melodie come mio linguaggio universale facendo a meno di testi e parole. A mio avviso, infatti, credo che la musica strumentale abbia una funzione comunicativa maggiore di quella cantata, anche perché oggi c’è una mania generale di scrivere i testi delle canzoni come se fossero delle rime rap, spesso facendo riferimento a termini e parole che se ascoltati attentamente non significano niente, del tutto banali.

Nel guardarti indietro, dopo tutto questo tempo, che valore dai a quelle produzioni? Credi che abbiano resistito ostinatamente alla prova del tempo oppure c’è qualcosa che magari cambieresti o di cui sei meno soddisfatto?

Sono consapevole del patrimonio che ho realizzato. È stato incredibile incidere così tanta musica, inconsapevole all’epoca del successo che ne sarebbe derivato. Non mi sarei mai immaginato un tale successo globale. Tra i miei tanti successi ho anche realizzato l’album Muta, un disco ristampato più volte che da oltre trent’anni non ha mai smesso di vendere e, secondo l’opinione pubblica, uno dei più acclamati della storia della musica techno ed elettronica. Guardandomi indietro posso dire di amare ciò che ho realizzato, per quanto mi riguarda non è mai stata una questione di guadagno o di ottenere successo, non ci ho mai pensato. Avevo solo una grande voglia di arrivare al cuore della gente ed esprimermi musicalmente. Credo di esserci riuscito. Sono stato un po’ di tutto nella mia vita, ho viaggiato molto, non solo per andare a suonare nei vari club, ma anche per una mia ricerca interiore, per conoscere me stesso, i miei limiti, scavare fondo su ciò che è l’esistenza umana, scegliendo di vivendo di proposito in condizioni di vita tutt’altro che semplici, ostili, con poche garanzie e anche tanti rischi, senza alcuna comfort zone.

Quanto e come sei cambiato, da artista e DJ, da quando tutto è iniziato?

Come ti dicevo poc’anzi, amo la musica più di ogni cosa. Non ho famiglia, ma sono sposato con la musica ed i miei figli sono le tracce che ho pubblicato. È qualcosa con cui ci nasci, è dentro di te, ti possiede. Sono figlio di un musicista, dunque quando ero in tenera età in casa si ascoltava sempre musica e il clima era da clubbing happy. Ricordo che la prima volta in cui vidi due piatti ed un mixer fu proprio a casa mia: il colpevole fu mio padre, già allora un pioniere. Fu lui, infatti, a darmi le prime istruzioni, ancora non era stata inventata la tecnica di sovrapposizione tra due beat mandandoli a tempo insieme. Penso fosse il 1984 quando vidi per la prima volta una discoteca, la consolle, le luci ma soprattutto il DJ: mi trovavo in vacanza a Terracina con la mia famiglia e quel giorno segnò per sempre la mia esistenza.

Ho iniziato a comprare montagne di dischi 45 giri perché ancora non vi era traccia delle versioni mix attuali. Dopo 5 anni circa da grande frequentatore dei vari club romani che aprivano dal pomeriggio fino alle 20, iniziai piano piano a farmi notare come DJ con qualche party nei club della mia borgata, dove ho conosciuto persone che, grazie al mio talento, mi hanno portato ad arrivare nei club della Capitale, dove a 17 anni iniziò la mia carriera da DJ e musicista. Credo che dal 1989 in poi non mi sia più fermato per dieci anni, dato che parallelamente alla mia attività di disk jockey prendeva forma anche il mio percorso da produttore, che mi ha portato a varcare le frontiere internazionali sin da subito. Ho realizzato circa 40 vinili, tra cui 4 album, tutti pubblicati in un tempo ben preciso, con un lavoro di post produzione pazzesco, visto il numero di copie vendute – nei vari formati – in tutto il mondo.

Dopo circa 7 anni di viaggi, serate, centinaia di voli, ho deciso di fermarmi perché non ne potevo più, volevo solo ritornare alla mia semplicità. Sai, io non mi ritengo cosi popolare. La popolarità uccide l’essere che c’è in te, io non l’ho mai cercata, ma comunque mi ci sono ubriacato per un bel po’. È stata una grande illusione, molto dannosa. Poi oggi, figuriamoci, in un mondo dove sembra che anche mia nonna si scatta selfie… La causa della depressione nella maggior parte della giovane società è proprio il fatto che se non sei popolare su un qualche social non ti senti considerato. Mi piace ancora molto esibirmi dal vivo, ma lo faccio di rado, preferisco molto di più il mio ambiente, nel mio studio, a produrre la mia musica.

Recentemente Rebirth ha pubblicato una bella raccolta (Ciao Italia. Generazioni Underground) dedicata al movimento dell’Italian Dream House. Chiaramente non poteva mancare la tua Elements, tra i capolavori di quel periodo e, a mio avviso, uno dei momenti più alti della tua discografia. Come è nata quella traccia?

Grazie! È ancora oggi una traccia molto popolare, sembra che le generazioni che si sono susseguite da allora continuino ad apprezzarla. Elements è uno dei miei primi successi, ero un ragazzino con un vulcano di idee. Passavo le giornate in studio e mai con gli amici, non ne avevo il tempo. Solo la notte potevo incontrare i miei compagni di viaggio per qualche ora. L’idea di quel pezzo nasce dalla voglia di regalare al pubblico, un po’ da sognatore, qualcosa che io stesso non riuscivo a trovare nei negozi di dischi, ma che avevo chiaro e limpido nella mia mente.

Sai, fare il DJ ti dà l’opportunità di “leggere” le persone, comprendere cosa vogliono davvero ascoltare e ballare. Per questo motivo mi venne in mente di fare una traccia molto morbida quasi da fine serata nel club, per il momento dei saluti o per le ultime emozioni. Per l’appunto, poco dopo la pubblicazione, girando per l’Italia e non solo, divenne molto popolare. Ricordo ancora quella volta, al Cocoricò se non mi sbaglio, quando scoprii che Elements aveva preso forma proprio secondo la mia visione: era infatti il brano di chiusura di quella notte, con tanto di apertura del tetto per godere dell’alba. Ne rimasi sorpreso ed emozionato. Vorrei concludere inoltre dicendo che la scena romana negli anni 90 era molto ma molto popolare all’estero rispetto al resto d’Italia.

Restiamo ancora un attimo sul fenomeno dream house. Mi interessa molto capire il concetto di scena che vi era all’epoca. In che modo ti relazionavi all’interno di quell’ambiente? A parte – ovviamente – le sonorità, credi che vi fossero delle differenze sostanziali tra quel circuito dream house e, per l’appunto, il Sound Of Rome? 

Come detto prima, ho esordito abbastanza presto e non vi era ancora il fenomeno della musica techno elettronica, quindi ho partecipato sicuramente alla nascita del movimento insieme ad altri che ormai tutti conoscono, viste le varie interviste al riguardo. Eravamo in pochi a sostenere la causa della musica elettronica e io stesso avevo difficoltà a proporre le primissime produzioni techno o house che iniziavano a farsi strada sul globo. Sai, dovevo suonare solo tutta la notte partendo da hip hop, funk, disco ecc., dunque era molto complicato introdurre la nuova musica. All’epoca il DJ aveva molta più responsabilità rispetto ad oggi. Ci conoscevamo tutti tra DJ e produttori, andavamo molto d’accordo, era un ambiente magnifico, naturale, spontaneo e creativo. Ecco la nostra forza. Quindi, che amassimo techno o house, eravamo tutto un one love, uniti nell’amore della musica e del divertimento.

Quando tutto poi nacque, io ero lì, già pronto con un carriera in fase avanzata rispetto ai miei coetanei. Infatti, all’età di 19 anni ero già un dj internazionale che viveva a Berlino e venivo in Italia come guest. Ricordo che durante le mie gig internazionali mi stupivo del fatto che per almeno quattro anni ero il solo italiano a suonare negli eventi internazionali nel circuito techno. Parliamo del periodo che va dal 1990 a fine 1993 circa, quando ricordo che incontrai Mauro Picotto e Marco Carola ad un festival in Germania – forse in occasione della Love Parade. Per un quadriennio – dal 1991 al 1995 – Roma è stata la capitale del divertimento, con decine di migliaia di frequentatori dei nostri eventi che arrivavano da tutto il Paese e non solo. Ricordo bene che le nostre consolle romane erano le più ambite da tutti i DJ del mondo.

Di certo si sentiva parlare della scena del nord Italia, dove avevamo altri pionieri come Andrea Gemolotto – che era già piuttosto avanti con la musica che proponeva – ed altri DJ locali che sicuramente non vantavano il fatto di essere riconosciuti all’estero, ma molti di loro venivano regolarmente invitati a suonare nella Capitale. Noi romani abbiamo avuto Marco Trani, il DJ numero uno di sempre, l’unico in grado di entrare e dominare la scena romagnola con tutta l’invidia che ne derivò da tutti i colleghi di Rimini. Trani era un fenomeno – inventò una tecnica che tutti imitano ancora oggi – ma molti produttori del nord non lo menzionano. Ci ha lasciato un grande patrimonio, a differenza di altri DJ osannati che stupivano solo per il fatto che si imbottissero di droghe pesanti.

Riascoltando quelle tracce, è facile farsi prendere dalla nostalgia, era un’epoca in cui creatività e sperimentazione hanno raggiunto picchi altissimi. Nel tuo caso, ad esempio, assieme ai forgiatori del sopracitato Sound Of Rome, hai avuto il pregio di aprire nuovi squarci. Tra tutti, mi viene in mente l’importante lavoro sull’arrangiamento dell’hi hat di quei pezzi, che non era posto in levare come da tradizione house. Pensi che ad oggi ci possa essere ancora uno spazio di manovra per “inventare” oppure è già stato tutto scritto? È cambiato il tuo approccio nella modellazione della tua materia sonora?

Ultimamente provo grande piacere nel comporre musica instrumental hip hop, con molte melodie e poca ripetitività nella scrittura e dell’arrangiamento, con grande senso di organicità e beat lento. Nel frattempo sto collaborando per nuove release su vinile di musica house e techno. Tutto quello che ho appreso dalle mie esperienze ha una grande valenza su ciò che produco oggi.

Per quanto riguarda quel modo di arrangiare gli hi hat che citi, ne ascoltavo moltissimi in levare e decisi allora di suonarli in battere in sedicesimi e così nacque questo mio personale stile che rendeva riconoscibile tutta la mia musica. Se parliamo di techno, sembra che ad oggi stia avendo un periodo di crollo dell’audience, mentre assistiamo ad un grande interesse per le pubblicazioni risalenti agli anni ’90. Giustamente altri tipi di beat stanno prevalendo su tutto.

Io, da musicista e compositore, posso solo che esserne contento, perché sono già in una nuova era, mi sono lasciato il passato artistico alle spalle e sto evolvendomi verso un mio nuovo stile musicale. Trovo molta nostalgia riguardo gli anni ‘90 e forse proprio per questo prediligo la produzione di musica da camera, meditativa o sociale, con melodie che fanno riferimento ad epoche passate. Come ti dicevo all’inizio, ho da poco rilasciato in sordina l’album Pro Pop, disponibile al momento solo su Spotify ma che a breve verrà stampato su vinile.

Puntualmente, nel grosso delle interviste, arriva la fatidica domanda sui rave romani. Al contrario, vorrei invece saperne di più sulla tua produzione house. Dalla Elements sopracitata, passando alla serie di 12″ a firma Blue Zone, in catalogo vanti diverse perle col suono di Chicago (con tanto di omaggio a Larry Heard in Dreams) per nulla secondarie al tuo percorso acid e techno…

Ho sempre amato quasi tutto ciò che è musica. Come ti dicevo prima, all’inizio della mia carriera suonavo tutti i generi che si potevano proporre sul dancefloor ed ho sempre avuto una immensa passione per la musica black di qualsiasi tipo. Ovviamente quando avevo 17 anni fui stravolto al primo ascolto di String of Life di Derrick May, una traccia che cambiò la mia esistenza, così come Big Fun degli Inner City, e sempre tra il 1987 al 1989 si sono susseguite molte produzioni che arrivavano da Detroit e Chicago. Mi innamorai soprattutto del suono acid techno perché sentivo che era il genere che creava un mood più felice durante i party… non come ora, dove la dub techno è diventata una musica fatta per persone dormienti nel vero senso della parola, priva di romanticismo.

L’acid techno è un tipo di musica piuttosto semplice, se vogliamo, ma di grande impatto. Mi innamorai della Roland TB 303, uno strumento del valore di appena 30 euro che veniva regalato se si acquistava – se non sbaglio – il sintetizzatore Roland Jupiter 6, così iniziai a dare una mia visione personale. Insomma, lo studiai parecchio, volevo essere riconoscibile quando qualcuno suonava le mie tracce, ma ovviamente anche far saltare le persone. Mi divertiva davvero molto vedere il pubblico in delirio.

Amavo ed amo ancora molto l’house music. Dal 1989 in poi ci fu un esplosione di musica meravigliosa, prodotta benissimo, con un suono tutt’altro che commerciale e molto underground. Per esempio come quello di Strictly Rhythm, che aveva un suono davvero malinconico, con melodie romantiche ma molto minimali, con accenni di voci effettate… Un po’ come si fa nel reggae, che difatti è il padre del sottogenere dub, grazie al quale iniziarono a prendere vita le le cosidette “dub version”, ovvero batteria e basso e suoni con effetti delay usati alla giamaicana, su un beat 4/4 con loop di basi funky/Roland TR 909, discorsi di Martin Luther King e filtri vari.

Ricordo che iniziai a suonare solo house per circa 2 anni, me ne innamorai da matti, aveva tutto un altro impatto rispetto al suono a cui mi ero abituato con l’acid techno: aveva un’anima più mediterranea, perfetta per la Penisola, scorreva meglio nelle menti delle persone e anche i beat erano molto più lenti rispetto ai 138 bpm minimi che all’epoca si era soliti proporre. Ricordo dunque che iniziai un mio movimento a Roma nel locale Blue Zone, proponendo house music per tutta la notte. Anche dopo cinque ore, l’atmosfera era così spettacolare che divenne uno dei posti più in delle Capitale, nonostante la capienza ridotta, che però lo rese ancora più affascinante.

Cito l’estratto di una tua vecchia intervista: «Non mi piace ripetermi. In ogni mio disco c’è una visione particolare, legata al tempo in cui l’ho prodotto a elle sensazioni che provavo di volta in volta». In che momento ti trovi ora? 

Non ho tralasciato le produzioni techno, ma voglio continuare a proporre materiale che va, al solito, contro corrente. Credo che a breve produrrò un album techno assieme a Giorgio Gigli, un altro DJ della Capitale. Prediligo comunque la musica che ti ho citato.

La techno, come molti altri generi, sembra avere dei cicli. Nel corso degli anni abbiamo visto l’avvicendamento di alcune sonorità, dalla minimal all’electro, che hanno vissuto il periodo d’oro fuori dalla loro nicchia, per poi tornare sistematicamente passione ad esclusivo appannaggio di cultori e dunque del giro puramente underground. Proprio per questo sarebbe interessante conoscere la tua opinione sullo stato di forma di house e techno, magari ipotizzando anche uno squarcio sul futuro. Personalmente, correggimi se sbaglio, noto come – ad esempio – mentre gli afroamericani si barricano sempre più dietro la loro ricchissima cultura soul e funk, gli europei stanno riscoprendo le radici ’80, dunque il filone EBM, industrial, ecc. Sei d’accordo?

Stiamo vivendo un periodo di mutamento musicale. Tutta la musica, anche quella techno, deriva da altri generi come funk, jazz, dub, reggae, e i beat che dominano non sono piu i 4/4 classici ripetitivi di techno e house, ma piuttosto breakbeat, instrumental hip hop o il nuovo genere in voga ora, ovvero il lo fi beat, che prende sempre le sue fondamenta dai generi da me sopracitati. Direi che stiamo ritornando alle radici.

Sempre a proposito di futuro, ma anche di presente, è ormai chiaro che le carte in gioco siano cambiate su più fronti. Tra tutti, la visione e l’approccio dell’ascoltatore alla musica, che sembra non essere più lo stesso. Tolta la nicchia ancora affezionata al supporto fisico, lo streaming va per la maggiore, con i vari Spotify, Soundcloud, ma anche Bandcamp, in prima fila. In più, alla facilità e immediatezza di ascolto della musica, corre da tempo una costante rivoluzione tecnologica che ha portato la produzione musicale ad essere più o meno alla portata di tutti, con software e plug in – ma anche hardware – intuitivi e a costi accessibili. Credi che questo processo di cambiamento sia irreversibile? E qual è la sua incidenza concreta sull’underground?

Per tutti quelli come me che hanno realizzato grandi opere con successi internazionali, è stato molto difficile accettare l’era moderna. I dischi sono un formato meraviglioso, qualcosa che rimane impresso nelle persone, a differenza di un file digitale che sembra non avere alcun tipo di valore. Nessuno acquista più musica e pochi artisti spendono molto tempo nella composizione di nuove idee, per il semplice fatto che si parte scoraggiati visto che non c’è un guadagno o uno stimolo economico. Di conseguenza, anche la qualità della musica è crollata. Viviamo in un’era dove chiunque può avere una label e pubblicare musica, vista la semplicità con cui il web ti permette di farlo. Ci ritroviamo dunque in un oceano di label e artisti che non vanno da nessuna parte: in passato c’era la post produzione, con persone che avevano una grande esperienza ed intuito nel capire il valore di un artista e le probabilità di successo, mentre ora tutto è a portata di tutti e non ci si capisce più niente. Tutto è in vendita sui vari social, anche la fama si può comprare, basta avere un conto in banca e puoi avere like, play, follower, views ecc., per illudere le persone con un successo falso e illusorio. Oggi con un semplice computer si può fare tutto.

Leo Anibaldi, foto concessa da Rebirth Records

Sempre parlando di tecnologia, qual è il tuo set up odierno? Hai trovato una stabilità definitiva oppure adori ancora scoprire nuovi synth, drum machine, ecc.? 

Non è cambiato nulla nel mio metodo di composizione. La strumentazione e l’approccio sono gli stessi, e posso affermare di aver avuto modo di provare la maggior parte di tutti i strumenti reperibili sul mercato per poi trovare finalmente il mio set up definitivo.

Restando agganciati al discorso precedente, anche la pandemia ha chiaramente dato l’accelerata a tutta una serie di fattori, primo su tutti la visione del dj set e del live come esperienza casalinga, da vivere comodamente sul divano o stesi sul letto. Anche in questo caso, il processo è irreversibile?

Per me la musica va vissuta come esperienza fisica, è una forma di condivisione sociale che non può essere fruita su un letto tramite un monitor di un computer. Troppo artificiale per i miei gusti. Follia assoluta dei tempi moderni. Dalla pandemia il comparto dell’elettronica e del clubbing ne uscirà completamente disastrato. Già in precedenza si stava avvertendo un grande cambiamento nella scena globale e, come dicevamo, tutto viene fruito tramite i cellulari. Non esiste quasi più l’esperienza della condivisione diretta. C’è un grande oceano di artisti trap, techno ecc. che vogliono farsi sentire, ma hanno poca voce. C’è una follia generale ed ossessione nel voler apparire e diventare fenomeni pubblici.

Sempre in una vecchia intervista, dicesti che negli anni ’90 era Aphex Twin il mostro finale con cui fare i conti. Oggi hai ancora dei riferimenti e punti fermi?

Rimango fermo sulle mie convinzioni, perché tutto quello che viene prodotto oggi ha delle radici che arrivano sicuramente dalle esperienze musicali del passato, non dal presente. Tutti fanno riferimento agli anni ’90 come fonte di ispirazione.

Mi piacerebbe chiudere l’intervista con due liste.
I dieci dischi che hanno “forgiato” Leo Anibaldi…

Reload – A Collection Of Short Stories
The Mover / Mescalinum United
Aphex TwinSelected Ambient Works 85–92
Derrick May – Strings of life
Ecstasy Club – Jesus Love Acid
Miles DavisKind of Blue
Frankie Knuckles – Your Love
Frankie Knuckles & Satoshie Tomie – Tears
Brian EnoThursday Afternoon
Lee “Scratch” Perry and the Wailers

I dieci dischi che più ti hanno colpito di recente…

Da un paio d’anni sono chiuso in studio, isolandomi di proposito per non essere influenzato da niente, tranne che dalla mia ispirazione.

Un ringraziamento speciale va ad Andrea Benedetti, sempre prezioso nel ripercorrere con entusiasmo e disponibilità gli anni del visionario percorso techno capitolino, grande fonte d’ispirazione nella progettazione di questa intervista.